Il panorama attuale del jihadismo in Italia è estremamente
frammentario ed eterogeneo, caratterizzato dalla presenza di numerosi
attori dalle caratteristiche marcatamente diverse. L’arrivo del jihadismo
autoctono non significa che network “tradizionali” non siano più
presenti. Molti di loro sono stati fortemente indeboliti dalle
ondate di arresti ed espulsioni eseguite dalle autorità italiane nel corso
degli ultimi quindici anni. E, più di recente, alcuni importanti jihadisti
hanno volontariamente lasciato l’Italia in seguito alla Primavera araba
per unirsi alle tante formazioni terroriste attive in Nord Africa.
Ma, come dichiara a chiare lettere la Relazione sulla politica dell’informazione per
la sicurezza dell’intelligence italiana al Parlamento del 2012, individui
e nuclei legati a vari network jihadisti, soprattutto nordafricani, sono
ancora attivi nel nostro paese.
Seguendo dinamiche di lunga data, la maggior parte di questi
network è basata in Lombardia, ma presenze importanti sussistono
anche in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Campania.
In alcuni casi la loro presenza viene rilevata anche in altre regioni,
come nell’operazione eseguita dal Ros dei Carabinieri nel maggio 2013.
L’operazione, denominata “Masrah” (teatro), portò allo smantellamento
di una cellula di militanti nordafricani operanti tra la Puglia, la Sicilia
e il Belgio. Gli inquirenti accusano gli arrestati, immigrati di prima
generazione con forti legami con la “vecchia guardia” di viale Jenner,
di reclutare militanti e pianificare attentati contro obiettivi americani,
israeliani e italiani.
Negli ultimi tempi, tra tutti questi network “tradizionali” le autorità
italiane hanno iniziato a nutrire particolari timori nei confronti di quelli
tunisini. Del resto sono forti i legami con l’Italia da parte di molti dei
leader del ramo tunisino di Ansar al-Sharia, il gruppo salafita con marcate
tendenze jihadiste e che sin dalla sua fondazione ufficiale, dopo la caduta
di Ben Ali, ha posto una notevole minaccia alla stabilità politica e alla
sicurezza della Tunisia post-rivoluzionaria. Molti di essi, infatti, vissero
in Italia e nelle varie ondate di arresti dei primi anni Duemila furono
arrestati nel nostro paese e poi espulsi verso la Tunisia di Ben Ali, dove
scontarono un altro periodo in detenzione.
Tra di loro sono numerosi coloro che hanno conservato contatti in Italia
e gli indizi portano a pensare che i legami con il nostro paese siano utlizzati
per ottenere varie forme di supporto logistico per la loro lotta in Tunisia.
L’obiettivo principale di Ansar al-Sharia sembra essere la formazione di uno stato
islamico in Tunisia e non ci sono indicazioni che facciano pensare che
il gruppo al momento abbia intenzione di attaccare l’Italia. Anche in
virtù dell’astio che alcuni dei membri del gruppo potrebbero avere nei
confronti del nostro paese per motivi personali, tale prospettiva va
tenuta in considerazione.
Operanti spesso, come si vedrà, senza alcun legame con questi
network tradizionali, troviamo la seconda categoria che caratterizza
la fase attuale del jihadismo in Italia: lone actor e nuclei autoctoni. Non
esiste una definizione universalmente accettata, ma la caratteristica
comunemente utilizzata per stabilire se un soggetto sia autoctono o meno
è il fatto che sia nato o cresciuto nel paese preso in esame. L’elemento
chiave è, in sostanza, il fatto che il soggetto sia stato socializzato nel
paese, mentre la sua cittadinanza non costituisce un elemento rilevante.
Nel caso italiano, in particolare, dato che la legge non dà la cittadinanza
automaticamente ai nati sul suolo italiano se almeno uno dei due genitori
non sia italiano e che le norme per la naturalizzazione sono alquanto
stringenti, un numero relativamente ridotto di soggetti con origini
immigrate, anche se ha trascorso tutta la loro vita in Italia, possiede la
cittadinanza italiana. Il termine “italiani sociologici” è perciò usato per
descrivere tutti coloro che sono cresciuti e socializzati in Italia, siano essi
cittadini italiani o meno.
Adottando tale accezione di cosa costituisca essere italiano, si può
dire che in Italia esistono soggetti che possono essere considerati come
jihadisti autoctoni o aspiranti tali.
La relazione al Parlamento dei servizi d’intelligence del 2012, infatti,
avvertiva della presenza di soggetti «sia appartenenti alla seconda generazione
di immigrati sia cittadini italiani convertiti caratterizzati da una visione
intransigente dell’islam e da atteggiamenti di insofferenza verso i costumi occidentali».
Si tratta di un fenomeno estremamente ridotto, statisticamente insignificante se
considerato in relazione al numero di musulmani residenti in Italia e
più ridotto che nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e del
nord. È impossibile fornire numeri esatti data, tra le varie complicazioni,
l’arbitrarietà di certe categorizzazioni e la difficoltà di ottenere dati
inoppugnabili. Ma, in base all’azione di monitoraggio di social network
su internet compiuta per questo studio e a riscontri con diversi funzionari
di alto livello dell’antiterrorismo italiano, è perlomeno possibile fornire
alcune stime sommarie.
Si può ritenere che i soggetti attivamente coinvolti in questa nuova
scena jihadista autoctona siano una quarantina, forse una cinquantina.
Allo stesso modo, si può stimare che il numero di coloro che in vario
modo e con differenti livelli d’intensità simpatizzino con l’ideologia
jihadista sia di qualche centinaio. Si tratta, in sostanza, di un piccolo
insieme di persone dalle caratteristiche sociologiche (età, sesso, origine
etnica, istruzione, condizione sociale) estremamente eterogenee, ma
che condivide la fede jihadista. La maggior parte di loro interagisce
su internet con altri dello stesso credo in Italia (si può, infatti, dire che
quasi sempre entrano in contatto tramite social network su internet) e
all’estero. La maggior parte di essi vive nel nord del paese, in grandi città
quali Milano, Genova e Bologna ma anche in piccoli paesi di campagna,
solo alcuni abitano nel centro e nel sud Italia.
Va da subito chiarito che perlopiù questi soggetti non sono coinvolti
in alcuna attività violenta, limitando la propria militanza a un’attività
spesso spasmodica su internet, mirata a pubblicare e disseminare
materiale sia teologico sia operativo. Sebbene tali attività possano in
determinati casi rappresentare una violazione dell’articolo 270 quinquies
del Codice penale, la maggior parte degli aspiranti jihadisti autoctoni
italiani sono solo “aspiranti” che non compiono azioni violente. Tuttavia,
come i casi di Jarmoune, el-Abboubi e Delnevo hanno dimostrato, a
volte alcuni membri di questa scena informale passano – o perlomeno
cercano di farlo – dalla militanza virtuale a quella reale. Quando, come
e perché questo avvenga è spesso fonte di dibattito e di preoccupazione
tra esperti e funzionari dell’antiterrorismo.