Capire quali fattori portino un soggetto a radicalizzarsi è stata una
fonte pressoché inesauribile di dibattito nella comunità dell’antiterrorismo
mondiale, nel corso degli ultimi quindici anni. Le teorie che cercano
di spiegare il fenomeno sono molteplici. Uno dei fattori spesso citati,
soprattutto in merito alla radicalizzazione dei musulmani europei, è la
mancanza d’integrazione. Particolarmente nella prima parte degli anni
Duemila in molti, infatti, asserivano che la radice del problema fosse da
trovare nel senso di marginalizzazione, malcontento e discriminazione
lamentate da molti musulmani in tutto il continente. La teoria postulava
che certi musulmani europei, non volendo tollerare tali condizioni,
cercassero nel jihadismo una via per scagliarsi contro il sistema e
vendicarsi.
Negli ultimi anni questa teoria è stata criticata da molti esperti che
considerano non abbia alcuna base empirica. In primis, un’analisi dei casi
di jihadisti autoctoni in Europa e Nord America dimostra che molti,
per non dire la maggior parte di essi, non soffrissero di alcuna carenza
d’integrazione o marginalizzazione socio-economica. Molti erano
sbandati, individui che avevano sofferto di problemi che andavano
dall’uso di droghe pesanti all’essere perennemente disoccupati e in
ristrettezze economiche. Ma molti altri erano studenti universitari o
professionisti di successo, che spesso vivevano in condizioni migliori
dei loro coetanei, parlavano perfettamente la lingua del paese in cui
vivevano e avevano vite sociali e familiari stabili.
Inoltre, la teoria che fa dipendere la radicalizzazione dalla mancanza
d’integrazione socio-economica risulta essere poco credibile perché non
spiega come mai solo una percentuale statisticamente insignificante dei
milioni di musulmani europei, che indubbiamente vivono in condizioni
di disagio socio-economico e poca integrazione, si radicalizzano. Pare
perciò evidente l’esistenza di altri fenomeni determinanti.
È impossibile fornire risposte valide per tutti i casi, ma si può dire che
non è stato provato che la mancanza d’integrazione socio-economica
sia nulla più di uno dei molteplici fattori che possono contribuire alla
radicalizzazione di alcuni musulmani europei. Si può invece teorizzare
che un fattore più importante, sebbene più difficilmente quantificabile,
sia l’assenza di un altro tipo d’integrazione. L’integrazione intesa nel
senso di appartenenza a una determinata società, indipendentemente
dalle proprie condizioni socio-economiche, sembra essere un elemento
più significativo. Molti musulmani europei che si radicalizzano sono
soggetti confusi dalla loro identità e che rintracciano un mondo di
appartenenza in un’interpretazione fondamentalista dell’islam, invece
che nella loro identità di cittadini europei.
Inoltre, a ulteriore smentita dell’automatica equazione tra mancanza
d’integrazione e radicalizzazione, c’è il fatto storicamente provato che
giovani di ogni condizione sociale siano attratti da ideologie radicali.
Rimanendo in Italia, basta ricordare che molti dei militanti dell’estrema
sinistra e dell’estrema destra che insaguinarono le strade del paese negli
anni Settanta e nei primi Ottanta fossero studenti universitari e rampolli
di famiglie della media e in alcuni casi alta borghesia italiana. Il desiderio
di ribellione, appartenenza, cameratismo e avventura tipici della giovane
età sono elementi fondamentali nell’analisi della radicalizzazione, sia
essa jihadista o di qualsiasi altra natura.
La teoria che postula che, per quanto fattori di discriminazione e
integrazione socio-economica non vadano ignorati, sia più utile cercare
le radici della radicalizzazione di un soggetto nel suo profilo psicologico
e nella sua ricerca di un’identità trova conferma nei pochi casi finora
registrati di jihadisti autoctoni italiani. Né Jarmoune né el-Abboubi,
infatti, possono essere considerati poco integrati in termini socioeconomici.
Entrambi vivevano con le loro famiglie in abitazioni più
che dignitose, in piccole cittadine del bresciano in cui erano cresciuti e
dove conoscevano tutti. Jarmoune lavorava per una piccola società che
installava impianti elettrici e aveva un contratto a tempo indeterminato,
un lusso di cui pochissimi tra i suoi coetanei italiani possono godere.
El-Abboubi, a sua volta, stava per diplomarsi presso un istituto tecnico
di Brescia. Le famiglie di entrambi vengono descritte dai più come ben
integrate (anche se alcuni dei familiari di el-Abboubi che vivono nella
zona hanno vari precedenti penali). É però anche vero che, nel minidocumentario
su MTV Italia, el-Abboubi si lamentava ripetutamente del
razzismo con il quale si era dovuto confrontare fin da bambino in Italia.
Tutto ciò vale ancor più nel caso di Delnevo. Nato in una famiglia
italiana medio-borghese e cattolica, il genovese non poteva aver sofferto
nessun problema di discriminazione e mancanza di integrazione che
alcuni attribuiscono ai musulmani europei che si radicalizzano.
È ovvio che nel suo caso, ma anche in quello di Jarmoune e di el-Abboubi, le radici
della sua radicalizzazione vadano ricercate nei suoi tratti personali e nella
sua mancanza di volontà, non di capacità, di far parte della società italiana
ed occidentale. Tutti e tre, anche se in maniera diversa, ebbero difficoltà
nel trovare una propria identità e simpatizzarono con altre ideologie o
mode anti-sistema prima di abbracciare il jihadismo (Delnevo, come si
è visto, con il fascismo, el-Abboubi con l’hip hop). Ma queste traiettorie
sono chiaramente determinate da un percorso intellettivo legato a scelte
personali, invece che a condizioni di discriminazione socio-economiche.