Due giorni fa, il 22 novembre, a circa 50 chilometri dalla città kenyota di Mandera, vicino al confine con la Somalia, 28 persone sono state uccise dai miliziani islamisti di Al Shabab. I giustiziati facevano parte di un gruppo di 60 persone che a bordo di un autobus si stavano recando a Nairobi. La loro colpa è stata quella di non essere musulmani o di non essere in grado di recitare il Corano.
Con i riflettori mediatici puntati quasi esclusivamente sulla guerra in Iraq e Siria contro lo Stato Islamico e sul rischio di attentati negli Stati Uniti e in Europa, i gruppi estremisti islamici d’Africa cercano di tenere viva l’attenzione sulle loro campagne del terrore.
Harakat Shabaab al-Mujahidin. È questo il nome d’origine dell’organizzazione islamista somala meglio nota come Al Shabaab (“La Gioventù”), nata nel 2006 dall’ala estremista dell’Unione delle Corti Islamiche nel corso della guerra in Somalia. Da allora il gruppo combatte per rovesciare il governo di Mogadiscio e imporre la Sharia in tutto il Paese, secondo una versione radicale dell’Islam di ispirazione wahhabita, “guadagnandosi” nel 2008 l’inserimento nella black list delle organizzazioni terroristiche internazionali da parte degli Stati Uniti. Ad oggi Al Shabab, a differenza di molti altri gruppi, non hanno annunciato l’alleanza con lo Stato Islamico, mantenendo invece fede al patto di fedeltà con Al Qaeda.
Il 5 settembre gli Stati Uniti hanno annunciato l’uccisione del suo leader Ahmed Abdi Godane, conosciuto anche come Mukhtar Abu Zubair. Tra i più ricercati capifila qaedisti, Godane è stato colpito da una pioggia di missili Hellfire statunitensi mentre presenziava una riunione tra gli alti ranghi dell’organizzazione a sud di Mogadiscio, capitale della Somalia.
Uscito vittorioso da una lotta di potere intestina dopo l’uccisione nel 2008 del suo predecessore Moalim Aden Hashi Ayro freddato durante un raid americano, Godane era un veterano della jihad afghana, con alle spalle esperienze di militanza in Pakistan e Sudan. In un video diffuso nel febbraio del 2012 era apparso in compagnia del capo di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, al quale aveva promesso l’obbedienza assoluta di Al Shabaab. In questi anni la sua visione internazionale si è però scontrata spesso con gli interessi territoriali dei vari clan che compongono l’ossatura dell’organizzazione.
Dopo la sua uccisione la leadership di Al Shabab non ha però perso tempo nominando come suo successore Ahmed Umar, conosciuto anche come Abu Ubaidah. Nel darne l’annuncio l’organizzazione ha affermato che vendicherà la morte di Godane, ragione per cui le autorità somale temono adesso pesanti ritorsioni da parte del gruppo qaedista.
Nonostante la frammentazione interna, Al Shabab – che ad oggi può contare su una forza di circa 7mila uomini – ha compiuto azioni eclatanti non solo in Somalia ma anche in Uganda, Etiopia e Kenya, dove il 21 settembre del 2013 nell’assalto al centro commerciale Westgate Shopping Center di Nairobi sono state uccise 67 persone. Diversi sono stati anche gli attacchi contro il contingente delle forze dell’Unione Africana (AMISOM), offensive attraverso cui il gruppo estremista è riuscito a colpire non solo il governo somalo ma anche i Paesi limitrofi che in questi anni hanno fornito mezzi e truppe per fermarne l’avanzata nel Corno d’Africa, Kenya in testa.
La missione dell’Unione Africana, avviata nel 2007, è riuscita nel 2011 ad allontanare la minaccia di Al Shabab da Mogadiscio e successivamente a privare il gruppo delle sue roccaforti nel centro e sud del Paese. Ma Al Shabab rimane fortemente radicato nelle campagne e nelle aree più remote.
Pur costretta ad abbandonare Mogadiscio e il porto strategico di Kismayo, Al Shabaab rimane una spina nel fianco per il governo di Hassan Sheikh Mohamud. In questi ultimi mesi il presidente è tornato a chiedere ai combattenti di deporre le armi in cambio dell’amnistia. Il suo appello però sembra destinato sfumare nel nulla, come dimostra l’orrore di quanto accaduto pochi giorni fa in Kenya.