“Abbiamo scelto con attenzione l’obiettivo da colpire con il nostro attentato. Il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne. Vogliamo che provino lo stesso dolore“…
Con queste atroci parole i talebani pakistani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan) hanno subito rivendicato il sanguinoso assalto di oggi alla scuola di Peshawar, frequentata per la gran parte da figli di militari, uccidendo più di 130 studenti
In fuga dalle zone tribali pakistane al confine con l’Afghanistan, i talebani si sono mescolati alle migliaia di profughi diretti a sud, verso Karachi, Quetta e Islamabad. Dove si stanno riorganizzando anche all’ombra di centinaia di madrasse, le scuole coraniche, in buona parte illegali e non controllate dal governo.
La cronaca di questa riluttante riscossa è stata scritta già nei mesi scorsi negli scarni dispacci provenienti dalle montagne nel Nord-ovest del paese. Ma le recenti vittorie del Governo e dei suoi alleati non significano che la battaglia per la salvezza dell’unica potenza atomica islamica del pianeta sia stata vinta.
Non solo perché i talebani hanno ricominciato a colpire con i loro attentati da Peshawar a Islamabad. Ma soprattutto perché nel corso dell’ultimo anno i segni della loro presenza sono aumentati anche al di fuori delle tradizionali aree di influenza.
Come se il pugno di ferro con cui le forze armate hanno tentato di schiacciare i talebani nel Nord-ovest avesse contribuito a sparpagliare sull’intero scacchiere della regione il resto dell’organizzazione.
La sensazione – come è stato dimostrato oggi dal sanguinoso attentato alla scuola per i figli dei militari – è che le prossima sfide non verranno combattute su un unico campo di battaglia, ma in una moltitudine di luoghi diversi, nelle scuole, per le strade, nelle città e nei villaggi.
Dagli slum di Karachi ai vicoli di Quetta, passando dai villaggi del Punjab meridionale. Tutti luoghi dove miseria, sfiducia e risentimento nei confronti di uno Stato che nel migliore dei casi è assente, e nel peggiore è ostile, creano da tempo un terreno di coltura ideale per il progressivo radicamento dell’islam militante.
Il rischio che interi quartieri diventino delle basi impiegate dai talebani per finanziarsi, riorganizzarsi e tornare a colpire è concreto. L’International Crisis Group ha richiamato l’attenzione sul pericolo rappresentato dalle oltre duemila madrasse, in gran parte illegali, dove vengono indottrinati i giovani provenienti dalle fasce più svantaggiate della società.
Non solo. Recentemente hanno iniziato a levarsi voci contro la crescente presenza pashtun anche al di fuori della città, nel Sindh rurale, dove i partiti nazionalisti guardano con preoccupazione all’incrinarsi di equilibri demografici rimasti immutati per decenni.
In questo processo di parcellizzazione della presenza talebana neppure la più politicamente influente delle quattro province pakistane, il Punjab, sembra essere rimasta immune dal contagio.
Non solo nei grandi centri come Lahore, dove il terrorismo ha compiuto alcuni dei suoi attacchi più ambiziosi, come quello contro la nazionale di cricket dello Sri Lanka.
Ma anche nelle campagne, dove i talebani stanno cercando di sfruttare le tensioni latenti della società: da quelle tra sunniti e sciiti fino a quelle tra latifondisti e manovalanza agricola.
Spaccature a cui il mondo della politica pakistana continua a non saper rispondere, incapace com’è di dare ascolto a una popolazione ogni giorno più ostile a uno Stato che considera irrimediabilmente corrotto.