Verso la metà degli anni Duemila, la maggior parte
dei paesi dell’Europa occidentale furono testimoni di una crescente
minaccia terrorista proveniente da network jihadisti sia tradizionali
che autoctoni.
La punta dell’iceberg del fenomeno è identificabile con
gli attacchi perpetrati (Madrid 2004, Amsterdam 2004, Londra 2005)
e quelli sventati in tutto il continente.
In completa controtendenza, la scena jihadista italiana di quegli anni
fu caratterizzata da una relativa tranquillità.
I vari network nordafricani ben presenti sul territorio
e alcuni nuovi network (quelli dei gruppi pachistani, per esempio)
continuarono le loro attività, ma con un’intensità marcatamente ridotta.
Da questo punto di vista, è significativo che, al di là di qualche piano
molto primitivo o solo teorizzato, nessun attacco venne pianificato da
alcun gruppo strutturato in Italia durante questo periodo.
Un insieme di fattori spiega quest’eccezione a livello europeo.
La pressione esercitata dalle autorità italiane contro le filiere jihadiste
presenti sul territorio è probabilmente il principale. Continue ondate
di arresti che iniziarono nel 2000 smantellarono numerose cellule in
Lombardia e nel resto del paese. Una volta arrestati gli obiettivi principali
di un’indagine, le autorità italiane solevano aprire una nuova inchiesta
contro i soggetti marginali, smantellando così nuclei interi. Grazie a
questo approccio investigativo estremamente tenace, decine di estremisti
furono arrestati, nella maggior parte dei casi (con importanti eccezioni)
condannati a pochi anni di prigione e in seguito espulsi verso il paese
d’origine. Altri furono semplicemente espulsi dal territorio nazionale per
motivi di ordine pubblico, non per via processuale, ma con un decreto
amministrativo.
Nel febbraio 2003 un importante leader della scena jihadista milanese,
l’imam egiziano Abu Omar, fu rapito dalla Cia e trasferito in Egitto. La
vicenda, dai noti sviluppi giudiziari, ha avuto ripercussioni sulle relazioni
tra Italia e Stati Uniti ma anche presso la comunità jihadista italiana. Altri
militanti decisero di lasciare l’Italia spontaneamente. Forse influenzati
nella loro decisione dalla pressione delle autorità italiane, molto jihadisti
abbandonarono il paese per l’Afghanistan, l’Iraq o l’Algeria. Alcuni di
loro morirono in varie battaglie, mentre altri decisero di non tornare in
Italia.
Questi sviluppi portarono a un notevole indebolimento del ruolo
che la moschea di viale Jenner rivestiva per il jihadismo italiano. Pur
rimanendo un importante polo d’attrazione per vari network jihadisti,
il centro cambiò notevolmente. Il reclutamento e le altre attività illegali
che prima venivano svolte all’interno del centro con l’assenso, se non
con il diretto coinvolgimento, della sua leadership si spostarono presso
altre moschee o in luoghi privati. La consapevolezza di essere osservati
da vicino portò i nuclei gravitanti intorno a viale Jenner e altri network
jihadisti a operare in maniera più discreta.
Al ruolo più dimesso delle strutture tradizionali non corrispose la
crescita di una scena autoctona. Gli episodi di Agrigento, Modena e
Brescia rappresentano proprio quest’ultima: episodi, eventi isolati dalla
discutibile natura terroristica e, nel caso di al-Khatib e Chaouki, senza
caratteristiche autoctone. Nei primi anni del Duemila le autorità italiane
non avevano ancora riscontrato alcun segno della radicalizzazione
jihadista autoctona che invece le loro controparti nel resto d’Europa
monitoravano con crescente apprensione. A riprova di ciò, nel gennaio
del 2007 l’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, dichiarava: «Non
ho mai sentito, né letto in rapporti segreti di musulmani di seconda
generazione sospettati di attività terroristica. Per ora, non è un problema
italiano. Ma vi posso dire che temiamo che diverrà un problema in
futuro».
Una serie di indagini svolte dimostrarono che il fenomeno jihadista in
Italia stava cambiando. La prima inchiesta fu resa pubblica nel luglio del
2007, quando quattro marocchini che risiedevano in provincia di Perugia
furono arrestati in base all’articolo 270 quinquies del Codice penale.
L’articolo, come si vedrà, fu introdotto nel luglio del 2005 e punisce
individui che forniscono o ricevono addestramento su esplosivi, armi
oppure ogni altra tecnica che possa essere utilizzata per fini terroristici.
Il caso era incentrato intorno alla figura di Mostapha el-Korchi, il
quarantenne imam della piccola moschea al-Nour di Ponte Felcino, una
frazione del capoluogo umbro. Carismatico e intraprendente, el-Korchi
era divenuto il leader della comunità islamica locale. Era membro della
Consulta comunale per l’immigrazione e della Circoscrizione di Ponte
Felcino per quanto riguarda il settore immigrati. Tramite queste sue
posizioni, aveva ottenuto fondi per svolgere corsi per i figli di immigrati
nei locali della scuola media comunale. Nel 2006, però, le autorità
vennero a conoscenza che el-Korchi diffondeva idee estremamente
radicali all’interno della comunità. Fu perciò deciso di condurre una
sorveglianza dell’imam e dei suoi più stretti collaboratori e, una volta
raccolti gli elementi comprovanti i primi sospetti, di piazzare alcune
cimici all’interno della moschea.
Nei mesi che seguirono gli inquirenti ascoltarono i sermoni estremisti
che el-Korchi recitava ogni venerdì in moschea. Il 9 febbraio 2007, per
esempio, el-Korchi tuonò: «Dio accetta i martiri musulmani… Dio ci
protegga dagli americani… dagli ebrei e dai cristiani… Dio li distrugga
e li renda deboli». Ancora più preoccupante era il fatto che el-Korchi
diffondesse simili idee nei corsi di lingua e cultura araba che impartiva
ai minorenni all’interno della moschea. Il 14 aprile 2007 fu registrato
mentre ammoniva i bambini: «Ci sarà un giorno del giudizio in cui
tutti i musulmani andranno in paradiso, mentre gli italiani miscredenti
andranno all’inferno e bruceranno… Coloro che non capiscono la
religione musulmana andranno all’inferno e saranno torturati… Colpire
gli altri bambini finché non esce loro il sangue».
Ma i fatti penalmente rilevanti che ancor più preoccupavano le autorità
inquirenti erano quelli che avvenivano a porte chiuse. El-Korchi, infatti,
aveva selezionato un piccolo gruppo di fedeli che passava innumerevoli
ore a indottrinare, una volta che le porte della moschea si chiudevano
al pubblico. El-Korchi gestiva quella che le autorità definirono una vera
e propria “scuola di terrorismo” nella quale mostrava ai suoi discepoli
i video di attacchi terroristici che aveva scaricato da forum jihadisti
protetti da password, manuali su come condurre attacchi e sermoni dei
più noti leader jihadisti mondiali. Alla visione del materiale online, più
di 20mila file furono trovati dalla Digos di Perugia sul computer della
moschea, si aggiungeva l’ascolto di discorsi in cui el-Korchi esortava i
propri adepti a percorrere il cammino del jihad e utilizzare la violenza.
L’indagine della Digos di Perugia – “Operazione Hammam”, dalla
password utilizzata da el-Korchi per entrare in siti jihadisti – terminò
nel luglio 2007 con il rinvio a giudizio di el-Korchi e di tre dei suoi
allievi. L’indagine è molto simile ad altre due compiute nel milanese
(a Macherio, “Operazione Shamal”) e in Calabria (Sellia Marina,
“Operazione Hanein”) nei mesi successivi. Nella prima, conclusa nel
dicembre 2008, la Digos di Milano arrestò due marocchini, accusandoli
di pianificare attacchi contro vari obiettivi a Milano e in Brianza. Nella
seconda, le autorità rinviarono a giudizio tre marocchini, incluso l’imam
della locale moschea, in base all’articolo 270 quinquies21.
I casi, che presentano importanti punti in comune tra loro, hanno
caratteristiche che indicano una parziale rottura con le dinamiche
viste negli anni precedenti. I tre nuclei, infatti, operavano perlopiù
indipendentemente da gruppi strutturati. È vero che el-Korchi aveva
legami con membri del Gruppo islamico combattente marocchino e che
facilitò il viaggio in Iraq di un marocchino che voleva unirsi a gruppi
legati ad al-Qaeda. Ciononostante, il suo nucleo e quelli di Macherio e
Sellia Marina non operavano come parte di una struttura complessa, ma
erano, dal punto di vista operativo, completamente indipendenti.
Inoltre, anche se è vero che la maggior parte dei militanti della
scena tradizionale facevano ampio uso di internet, i tre nuclei in esame
sembra che avessero posto il web al centro delle loro attività. Internet
era l’unico modo in cui questi nuclei, non avendo solidi contatti con il
mondo jihadista globale e operando, nel caso di Ponte Felcino e Sellia
Marina, geograficamente isolati da altri nuclei jihadisti italiani, potevano
approfondire la loro conoscenza dell’ideologia jihadista, imparare
tattiche e celebrare le azioni di vari gruppi jihadisti. internet era per i
piccoli nuclei operanti in cittadine quali Ponte Felcino, Macherio e Sellia
Marina, il cordone ombelicale che li legava al mondo jihadista: una
caratteristica tipica dei network jihadisti autoctoni presenti in Europa.
Al tempo stesso, alcune delle caratteristiche di questi tre nuclei sono
marcatamente diverse da quelle dei network jihadisti autoctoni europei.
In primis, tutti i soggetti che vi appartenevano erano immigrati di prima
generazione (tutti marocchini), arrivati in Italia in età adulta e che, per
la maggior parte, erano scarsamente integrati nella società italiana. Se,
come si usa, per jihadisti autoctoni si intendono coloro che sono nati o
perlomeno hanno vissuto i loro anni formativi in Europa, i membri dei
tre nuclei non possono essere considerati tali.
Inoltre, in tutti e tre i casi la moschea, anche se si tratta più di piccole
sale di preghiera improvvisate, svolge un ruolo fondamentale. Nonostante
frequenti eccezioni, la nuova generazione di jihadisti autoctoni europei
tende a non essere affiliata ad alcuna moschea. Alcuni rifuggono
completamente i luoghi di culto. Altri le frequentano senza occuparvi
posizioni di responsabilità, operando ai margini e spesso nascondendo
le proprie simpatie jihadiste alla dirigenza. A Ponte Felcino, Macherio
e Sellia Marina, invece, la moschea rivestiva ancora lo stesso ruolo
fondamentale che aveva nei network jihadisti tradizionali, al punto che
in tutti e tre i casi l’imam era la forza trainante del nucleo.
Va infine evidenziato che il livello di sofisticazione dei nuclei era
alquanto ridotto. Gli indagati si limitavano a teorizzare come tradurre
il loro zelo jihadista in azioni e solo nel caso di Macherio ci furono
discussioni su eventuali attacchi in Italia, intenzioni espresse in termini
molto vaghi (tanto vaghi che i soggetti furono scagionati).
In sostanza tutti e tre i nuclei possono essere visti semplicemente come
aggregazioni informali di giovani ai margini della società, senza previe connessioni
con il jihadismo e che hanno seguito un leader carismatico, egli stesso
privo di forti legami con gruppi jihadisti strutturati.